Il Diversity management per valorizzare la diversità nelle imprese

A cura della Redazione

Cos’è il Diversity Management?

Il diversity management (DM), è nato negli Stati Uniti, in contesti organizzativi di grandi dimensioni. In Italia il diversity è un tema piuttosto recente ma che tuttavia ha iniziato ad espandersi grazie ai cambiamenti demografici, della forza lavoro e grazie anche ad una spinta da parte dell’Unione Europea che ha incoraggiato il dibatto e l’adozione di misure volte a sviluppare il DM.

E’ opinione diffusa far coincidere il diversity management con il tema delle pari opportunità in ambito di genere, all’integrazione generazionale, all’orientamento religioso, politico e sessuale alla disabilità e all’etnia.

Ma il DM non è solo questo, è qualcosa di ben più profondo e nascosto che include anche la diversità inserita all’interno di un contesto organizzativo e di business.

Un’ interessante definizione, che potrebbe aiutare a comprendere meglio il concetto di diversità, ci viene proposta dall’Unione Europea:

“Lo sviluppo attivo e cosciente di un processo manageriale lungimirante, orientato al valore, strategico e comunicativo di accettazione delle differenze e uso di alcune differenze e somiglianze come un potenziale dell’organizzazione, un processo che crea valore aggiunto per l’impresa.”

Il DM è quindi l’insieme di misure e strumenti che consentono di valorizzare e gestire a 360° la diversità dei lavoratori, promuovendone l’inclusione negli ambienti di lavoro, andando oltre gli strumenti che il legislatore mette a disposizione delle imprese.

Loden e Rosener raggruppano le dimensioni della diversità in due categorie:

  1. diversità primarie: in cui sono inserite l’età, il genere, l’etnia, la religione ecc, ossia tutto ciò che fa parte di un patrimonio innato dell’individuo e che non possono essere modificate;
  2. diversità secondarie: in cui sono inseriti il percorso formativo e professionale, l’esperienza e il ruolo nell’organizzazione, il reddito, la collocazione geografica ecc., cioè gli elementi acquisibili, e quindi modificabili, nel corso del tempo.

Inoltre le diversità agiscono su tre livelli nel contesto aziendale:

  1. Identità personale: subisce delle modifiche nel corso del tempo e rappresenta l’unicità dell’individuo. I principali rischi connessi possono essere errori di valutazione, pregiudizi, sospetto e paura verso ciò che si avverte come diverso;
  2. Identità culturale di gruppo: si basa sulla condivisione di valori, simboli e linguaggi. Il rischio principale è il Group Think;
  3. Appartenenza organizzativa: si basa sulla condivisione della cultura organizzativa, delle strategie e delle pratiche. Il principale rischio connesso a questa variabile è legato alla creazione di barriere alla diversità (stereotipi, etnocentrismo, difficoltà nella gestione dei rapporti).


Il Diversity Managment e la legislazione italiana

L’art. 28 del d.lgs. n. 81/2008 stabilisce che il datore ha il dovere di valutare “tutti i rischi per la sicurezza, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato…e quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza…, nonché quelli connessi alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri Paesi e quelli connessi alla specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione”; fin dal primo articolo del d.lgs. 81/2008, dove si esprimono le finalità della normativa sulla salute e sicurezza, si prevede la “tutela delle lavoratrici e dei lavoratori sul territorio nazionale attraverso il rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, anche con riguardo alle differenze di genere, di età e alla condizione delle lavoratrici e dei lavoratori immigrati”.

Si evince subito che la nostra legislazione impone di considerare la prevenzione tenendo conto delle peculiarità dei lavoratori, evitando di destinarla ad un lavoratore-tipo, astratto e neutro.

Quali sono questi gruppi?

La normativa li fa coincidere con quelli legati alle politiche antidiscriminatorie da cui si ricavano i gruppi o fattori di rischio: sesso, razza, origine etnica, nazionalità, religione, disabilità, età, orientamento sessuale, salute, convinzioni personali, orientamento o attività sindacale, orientamento politico.

Questa corrispondenza non è un casualità, le persone c.d “fragili”, sia per caratteristiche fisiche che per caratteristiche socio economiche o ambientali, sono anche quelle maggiormente colpite da discriminazioni, perché spesso considerate meno produttive da parte delle organizzazioni aziendali.

Sono proprio questi i gruppi oggetto di attenzione da parte del Diversity Manager e da parte delle HR. Insieme, infatti, ricercano le migliori soluzioni volte a favorire l’inclusione e la tutela alla salute rispettando la dignità di tutti al fine di ottenere una realizzazione personale e professionale nella diversità.

Un’azienda che non adotta politiche inclusive espone l’organizzazione a comportamenti discriminatori non controllati e al mancato rispetto dell’attuale normativa sul tema.

Differenze di Genere

Il nostro ordinamento pone l’accetto, principalmente, sulle differenze di genere cercando di tutelare la parità uomo e donna.

Le donne, infatti, sono spesso più esposte, rispetto ai loro colleghi uomini a:

  • Stress lavoro correlato, per una non corretta conciliazione dei tempi di vita e di lavoro;
  • a una minor retribuzione;
  • al rischio di molestie sessuali (la L. 205/2017 ha rafforzato i doveri del datore di lavoro volti a prevenire questi atteggiamenti).

A vantaggio delle donne, la nostra legislazione ha introdotto misure specifiche a loro tutela:

  • lo smartworking: le lavoratrici madri hanno un diritto di precedenza rispetto ai colleghi maschi (art. 18 L. 81/2017);
  • part-time e turni agevolati;
  • permessi retribuiti.

Quanto sopra esposto deriva da obblighi di legge per tutte le organizzazioni, imposti dal Codice Civile, art. 2087, non sono da considerarsi come buone prassi. Pertanto la mancata attuazione comporta anche un rischio elevato per i datori di lavoro.

Differenze legate alla provenienza geografica e credo religioso

Sono moltissimi gli stranieri che trovano occupazione presso organizzazioni italiane ed è spesso difficile, per loro, trovare ambienti lavorativi inclusivi.

La principale criticità riguarda la scarsa conoscenza della lingua italiana, che pone lo straniero su un piano di svantaggio elevato. Questo fattore di rischio deve essere valutato e considerato attentamente delle aziende, introducendo azione e misure adeguate volte a favorire il corretto processo di integrazione dei lavoratori stranieri.

Tale categoria di lavoratori presenta, nello svolgimento della prestazione lavorativa, una serie di rischi specifici legati al tema dell’integrazione.

Anche la sfera religiosa ha un forte impatto sull’organizzazione lavorativa. Ci sono lavoratori che potrebbero avere la necessità di allontanarsi dal luogo di lavoro per dedicarsi alla preghiera, oppure di osservare dei digiuni o di non consumare determinati cibi, oppure di indossare un abbigliamento diverso rispetto a quello della nostra cultura.

Tutte queste situazioni possono essere gestite attraverso delle corrette prassi aziendali che preservino l’attività lavorativa, anche in assenza del lavoratore, rispettando le norme sulla sicurezza del lavoro e consentendo, allo stesso tempo, al lavoratore di coltivare la sua fede religiosa anche in azienda.

Come appena evidenziato, il binomio sicurezza e politiche antidiscriminatorie è sempre più importante.

Differenze legate all’età

Anche in relazione all’invecchiamento della popolazione aziendale è possibile mettere in atto delle azioni volte ad evitare un comportamento discriminatorio.

E’ chiaro che i lavoratori che hanno un’età avanzata possono sviluppare dei deficit fisici, che potrebbero non consentirgli di svolgere l’attività lavorativa nel migliore dei modi.

L’azienda potrebbe gestire il ricambio generazionale attraverso strumenti (es. isopensione) che permettono un corretto accompagnamento alla pensione.

Tali strumenti sono piuttosto costosi per le aziende ma non sono invasivi per l’organizzazione aziendale.

Contrariamente, le organizzazioni potrebbero adeguare gli ambienti di lavoro con corretti sistemi di illuminazione, progettare linee di produzione dedicate e più lente, utilizzare software più semplici e sviluppare le soft skill, con un impatto rilevante sull’assetto organizzativo e dei costi.

La disabilità

Questo è uno dei fattori di diversità che il nostro ordinamento ha ben identificato nel D.lgs 216/2003, in cui viene imposto al datore di lavoro di adattare e modificare l’organizzazione aziendale per accogliere soggetti con disabilità.

Le misure obbligate possono essere di tipo architettonico, ambientale, biomedico, ingegneristico, logistico, organizzativo, formativo, ecc..

In caso di mancata adozione di queste misure, il sistema sanzionatorio è bene definito.

Si ricorda infatti che la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, richiamata dal nostro legislatore, equipara il rifiuto di adottare un accomodamento ragionevole a una discriminazione.

Le aziende, nell’introdurre misure per agevolare l’inclusione delle persone affette da disabilità, possono anche chiedere un sostegno all’INAIL che prevede aiuti per le organizzazioni che attuano progetti di inserimento e formazione delle persone disabili.

Inoltre occorre tenere presente che la L.68/1999 obbliga le aziende ad assumere e proteggere i lavoratori con disabilità nei limiti previsti dalla norma.

LGBTQ+

Secondo una recente indagine statistica condotta da ISTA e UNAR nel 2019, il 5,1% delle imprese con almeno 50 dipendenti (pari a oltre mille imprese) ha adottato almeno una misura ulteriore rispetto a quanto già stabilito per legge, volta a favorire l’inclusione dei lavoratori LGBT+. Tra queste misure si ricordano: eventi formativi rivolti al top management e ai lavoratori sui temi legati alle diversità LGBT+; iniziative di promozione della cultura d’inclusione e valorizzazione delle diversità LGBT+; misure ad hoc per i lavoratori transgender; permessi, benefit e altre misure specifiche per i lavoratori LGBT+. La quota d’imprese cresce all’aumentare della loro dimensione: dal 4,4% nel caso di 50-499 dipendenti al 14,6% per le imprese di dimensioni maggiori. (Fonte: Istat).

Per gli stakeholder intervistati gli assi prioritari d’intervento per favorire l’inclusione delle persone LGBT+ si fondano sulla diffusione di una cultura delle differenze e la realizzazione di attività di formazione alle diversità, non solo in relazione alla sfera lavorativa. Tale cultura dovrebbe essere promossa a diversi livelli, a partire dalle istituzioni scolastiche. Sia che si tratti di una formazione specifica sui temi LGBT+ sia che insista più in generale sulle diversità, gli stakeholder ritengono che la formazione debba essere rivolta in prima battuta ai datori di lavoro (pubblici, privati e del terzo settore) e al top management. Inoltre, alcuni degli intervistati hanno sottolineato l’importanza di una presa di posizione esplicita da parte dei datori di lavoro, pubblici e privati, a favore dei diritti delle persone LGBT+.

Oltre che ai datori di lavoro e ai lavoratori, la formazione e sensibilizzazione sulle tematiche legate alle diversità dovrebbe essere rivolta anche a vari attori che operano per il contrasto alle discriminazioni e quindi va promossa, ad esempio, tra i delegati sindacali perché abbiano piena coscienza dei fenomeni discriminatori, nelle scuole di polizia e tra le altre forze dell’ordine. (Fonte: Istat).

I costi del Diversity e Inclusion Managment

E’ innegabile che, quando si decide di introdurre in azienda una vera e propria politica di diversity, le organizzazioni sostengano elevati costi.

Le tipologie di costi possono essere:

  • di tipo organizzativo: ridisegnare l’organizzazione aziendale in ottica di inclusività
  • costi vs opportunità: introdurre il DM comporta un elevato utilizzo di ore uomo che vengono sottratte;
  • relativi al forte cambiamento culturale con un rischio di fallimento;
  • di tipo legale, ovvero legate allo studio delle corrette forme giuridiche per adottare la parità di genere;
  • relativi allo scivolo pensionistico.

Sarebbe opportuno verificare anche le agevolazioni che il legislatore mette a disposizione delle aziende, per consentire una corretta introduzione del DM.

Esistono poi altri potenziali fattori negativi, da considerare nell’introduzione del DM e che le organizzazioni devono valutare attentamente:

  • Diminuzione dell’equità e dell’uniformità: sembra contraddittorio ma introducendo politiche inclusive si può rischiare di ottenere l’effetto contrario ovvero la mancata percezione di parità di trattamento, da parte dei vertici aziendali, nei confronti delle persone;
  • Le relazioni ovvero alcuni aspetti dell’identità individuale mal si conciliano con la cultura organizzativa, generando conflitti di comunicazione ed atteggiamenti difensivi che portano ad inefficienze.

I benefici del Diversity Managment

Oltre a quelli già indicati nei primi paragrafi del presente articolo possiamo certamente introdurne molti altri:

  • Aumento della motivazione
  • Riduzione dell’assenteismo
  • Immagine esterna migliore
  • Attrattività maggiore verso i talenti
  • Capacità di affrontare, in modo migliore, le sfide legate alla globalizzazione;
  • Aumento dell’innovazione e della creatività
  • Clima aziendale sereno e disteso, dove tutti si sentono accettati
  • integrazione degli interventi legislativi in tema di pari opportunità e categorie
  • miglioramento dei rapporti con le comunità locali (Fonte: risorseumanehr.com)

Attuare misure specifiche per creare un ambiente di lavoro inclusivo permette alle persone di sentirsi accettate e rispettate come individui in tutte le loro differenti personalità. Si sentono infatti comprese nelle loro esigenze personali e non solo lavorative.

La diversità in azienda va quindi tutelata, in ottica di miglioramento delle condizioni di lavoro, di benessere e di accettazione delle diversità.

La sfida del Diversity Manager è quella di estendere soluzioni inclusive non solo nell’ambito della “sicurezza del lavoratore” ma anche in tutti gli altri ambiti sopra elencati (genere, provenienza, orientamento sessuale, lingua, credo religioso ecc).

Per la complessità dell’argomento è importante ricordare come il DM vada accompagnato e sostenuto (anche con incentivazioni statali e opportuni accordi sindacali) affinché non diventi un modo per scaricare sulle imprese le mancanze del sistema di welfare e gli effetti di barriere, materiali e culturali, nei confronti di alcuni gruppi/diversità

Inoltre l’esigenza di adattare il DM al contesto specifico (Lazazzara 2015) quale quello italiano, caratterizzato dalla presenza di numerose piccole e medie imprese, e allo scenario attuale segnato dagli effetti del Covid e dall’esigenza di ottimizzare i costi. (Fonte: neodemos.info)


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